“L’influenza dell’Emilia e della Romagna sui guidatori del trotto è molto forte, nell’ordine estetico. Ho sempre ravvisato qualcosa di emiliano anche nei guidatori francesi, o tedeschi o russi”. Lo scrisse il bolognese Max David nel suo Gli italiani a cavallo (Bietti, 1967). David fu tra i più celebri giornalisti degli anni Cinquanta e Sessanta. Lo consideravano tra i migliori inviati di guerra perché scappava solo se ad attenderlo c’era un cavallo. E aveva questo chiodo fisso: l’Emilia Romagna per lui era la patria del trotto, non da un punto di vista tecnico (di cui non si curava granché), ma da quello emotivo e culturale. Perché? Semplice: “Il trotto”, scriveva sempre nel volumetto di Bietti illustrato da Aligi Sassu, “è un irruento e duro martellio che fa lievemente lievitare la terra intorno e solleva della polvere”. E per David era proprio il rumore a fare la differenza: “Prima che si trovasse il modo di andare più forte coi motori, in Emilia e in Romagna i cavalli non servivano per trasportare la gente o per trainare i carretti. Servivano per correre e per fare del rumore. Gli emiliani e i romagnoli, che per molti altri aspetti differiscono notevolmente tra loro, hanno in comune il gusto per la velocità rumorosa. […] Abbiamo visto come nelle poche rivoluzioni (o simili) che hanno turbato il nostro tranquillo Paese gli emiliani e i romagnoli siano sempre stati in prima fila. Per eroismo? Neanche per sogno. Per il rumore”. Chissà cosa avrebbe detto se lo avessero portato (opportunamente legato) in una discoteca della Rimini dei giorni nostri?
Il trotto, che non a caso vide la fondazione dell’Anact proprio a Bologna nel 1929, ha sempre colpito la fantasia degli scrittori emiliani. Successe anche con Emilio Cecchi, uno dei più grandi intellettuali e critici d’arte della prima metà del Novecento. Cecchi, pur essendo nato a Firenze nel 1882 e morto a Roma nel 1966, era per temperamento e frequentazioni un bolognese. E fu una cavalla emiliana, Doméra, a ispirargli Corse al trotto, racconto d’apertura di Corse al trotto e altre cose (Sansoni, 1952).
Doméra corse per Lady Hambletonian, allevamento di Novi, vicino a Modena, di cui poi divenne una fattrice fondamentale. Il Lady Hambletonian, cui tra l’altro il trotto italiano deve lo stallone Arlecchino, fu regalato dal genovese barone Roggeri alla sua compagna, l’attrice bolognese Egle Fanelli, la cui storia ippica ed umana è stata ricordata anche da Patrizia Carrano nel suo recente Campo di prova (Rizzoli 2002, 16 euro). Le cronache di allora, molte delle quali conservate nella preziosa biblioteca del Museo Storico del Trotto a Civitanova Marche, il grande lascito al settore del Capitano Ermanno Mori, raccontano che il nobiluomo la “tolse dalle scene per portala nel suo tenimento di Novi”. E lì la Fanelli divenne la Sora Egle dando miglior prova come allevatrice che come artista. Ma non fu comunque sufficiente, tanto che finì i suoi giorni sola e in miseria: fu trovata morta in un appartamento da funzionari ippici andati a portarle un sussidio per tirare avanti. Erano 500 lire e nei registri si legge ancora di questo ritorno di cassa per sopravvenuta morte della beneficiaria. Ma forse pensò sempre che ne fosse valsa la pena, tanto più che Doméra doveva essere stupenda. Cecchi in Corse al trotto ne fece una specie l’archetipo che da bambino lo iniziò al culto della bellezza. In questo racconto scrive di aver dimenticato nome e immagine del suo primo amore umano, “ma non s’è scancellato il nome, e non l’immagine, di Doméra, la grande cavalla baja che, alla medesima epoca, furoreggiava sugli ippodromi. Gentile e feroce, di favolosa eleganza e al tempo stesso con un che di popolare, che applausi quando sbucava dall’ultima curva, dinnanzi al disperato manipolo degli inseguitori. […] Non era di quei tremendi cavalli che ostentano un macchinoso apparto di fibbie, tiranti e chinghioli […] Anzi correva quasi nuda, come una divinità pagana”. E nel guardarla si perdeva “in fantasticaggini, per ritornare, sostanzialmente, sempre alla stessa congettura: che cioè si trattava d’emozioni simili a quelle che ci darebbe un’apparizione mitologica. Un frammento di mito, un blocco di realtà primordiale, che ci casca all’improvviso tra i piedi, luminoso e bollente come un aerolito”.
Per Cecchi i cavalli resteranno sempre così: un mezzo di trasporto verso una realtà più bella e misteriosa, lontana dalle logiche di una vita troppo terrena per un uomo come lui. In Cavallerie berbere, l’altro racconto legato ai cavalli pubblicato sempre in Corse al trotto e altre cose, scrive: “O bei cavallini, portatemi via, portatemi via con voi. Sono stanco, bei cavallini, sono stanco di lavorare; stanco dell’ordine di questo tavolino. […] Un ordine da diventar matti, che mi costa gli occhi del capo […]. Io non ce la faccio più, con tanti fastidi e tanti dottori. Andiamocene di qui. Portatemi un po’ allo sbaraglio. Bei cavallini del deserto, svelti svelti, leggeri leggeri, portatemi al diavolo; dolcemente, bei cavallini, portatemi al diavolo”. Nella sua vita Cecchi andò sempre più a mostre e convegni che alle corse. E, visto quel che poi scriveva, certamente commise un grande errore.